I libri Effigi su Manciano, Pitigliano, Sorano.

I Ragazzi del Monumento

Monumento ai Partigiani-Manciano

Monumento ai Partigiani-Manciano

Ci salutammo sul sagrato della chiesa di S. Leonardo finita la messa. Poi ci avviammo fra le viuzze attorno, verso il parco. Qui, Audemio Giomarelli, amico d’infanzia di mio marito, si fermò ad un tratto dinanzi alla casa avita. E, sospingendo alla luce i ricordi, quasi a farmene dono, affermò:   “Qui abitavo da ragazzo. Qui, a sera, tornavo con nonno Filiberto dal podere del sor Benso Pascucci a Prato Budello… Qui, quel giorno, portai tutto il mio smarrimento e deposi il mio segreto dopo aver assistito alla fucilazione di cinque partigiani, sai… quelli del monumento!”. Aveva 12 anni. Attraverso il parco scendemmo lenti, ma il racconto debordò. Non riuscì a contenerlo il percorso verso casa. Ci incontrammo ancora. Audemio finalmente era pronto a sciogliere quel grumo doloroso che fino a quel momento era stato chiuso nel suo cuore. Io avida lo raccolsi per farne memoria collettiva.

Il Tempo
Si sta consumando l’ultimo atto della barbarie nazifascista. Terrore. Rappresaglie. Le notti sono violate da agguati. Colpi sibilanti di “Steiner”. Di mitraglia. Il 25 gennaio 1944 un susseguirsi di singhiozzi trafigge il brigadiere della guardia fascista Catone Corridori. Il sangue misto a materia celebrale disegna macabri arabeschi sulla facciata della casa al numero 66 di Via Marsala a Manciano. Ogni giorno si ha notizia di cacce serrate, di fuoco vile ai cascinali, di catture e impiccagioni di giovani inermi.

La vicenda – I protagonisti
2 Marzo 1944. Sono catturati a Casa Sbraci in quel di Montebuono nel comune di Sorano, cinque giovani nel corso di un’azione di guerriglia durante un rastrellamento. Non fanno parte quei giovani delle bande partigiane che operano nella nostra zona: Montauto, Pelagone. I loro nonni: Africo Balocchi; Marsilio Gavini; Felice Grillo; Francesco Sorrentini; Alvaro Vasconi. La esemplare risposta al loro “crimine” non si risolve con la solida … efficacia: cattura, fucilazione. Il percorso dei “banditi” è un singhiozzo. Un trascinarsi forzato come il canto dello “spariglio” nel gioco delle carte per conoscere la combinazione di quelle coperte. E se una mano avesse alzato la carta con l’odiosa immagine della morte? Eccoli dinanzi al muro del palazzo comunale di Sorano, esposti come prede di guerra, come monito per la popolazione. I fucili dei carnefici puntati. Poi sono portati nella caserma dei carabinieri e trasferiti, il giorno seguente, a Viterbo. Qui, dopo un processo sommario, la condanna alla pena capitale. L’esecuzione dovrebbe avvenire nella zona di provenienza, Sorano o Pitigliano. Un monito per tutta la cittadinanza! Il Vescovo, considerata la esplicita opposizione del clero tutto e della popolazione, per suo personale disagio, tergiversa finché in suo aiuto venne il parroco di Manciano don Antonio Ferretti compiacente di rispondere alle richieste degli invasori e sottolineare, con quell’atto, la sua indefessa fede fascista. Manciano di cui era “la guida spirituale” sarà il luogo dell’esecuzione.

10 Marzo 1944. Nonno e nipote: Filiberto e Audemio si muovono fra i filari della loro vigna. Le scarpe pesanti hanno accolto tutta la guazza della notte. Decise le mani del vecchio stringono le cesoie scegliendo nei rami contorti il germoglio a cui assegnare il compito di aprirsi alla vita. Vago l’occhio del ragazzo che scopre, confuso lo sguardo all’azzurro dell’aria, il fumo uscito da un bosco di castagni. Si alza il sole in quel tenero adulare di valli e, ogni dosso accoglie lo smeriglio di luce solitaria. Ma le lievi alture non echeggiano oggi di belati. Un canto greve, un passo come di ferraglia battuta, avanza con una squadra di uomini nella divisa dell’esercito tedesco. Si schierano distanti, ma nettissimi alla vista. Un querciolo diviene l’obiettivo di un susseguirsi di colpi di fucile decisi pressanti. Il sibilo maligno è ritmato da grida spavalde selvatiche sonore. Il nonno sussurra –sembra una esecuzione- Poi…serrata la mano ruvida alla docile presa di quella del ragazzo, gli occhi fissi al sentiero che corre in salita il cuore intento a scandire un tempo lungo per allontanarsi a un presagio incombente, si spinge sulla via del ritorno al paese.

La carta d'identità di Enrichetta Capitanini

La carta d’identità di Enrichetta Capitanini

I Testimoni
Mi chiamo Enrichetta Capitanini. Abito in via Trieste, al n° 16. Pochi scalini per affacciarmi alla strada. E’ il primo mattino di un marzo gentile. Uno strano calpestio richiama la mia attenzione mentre sciorino all’aria frizzante candide lenzuola fresche di bucato. Mi sporgo alla strada. Orme chiodate avanzano in una inusuale processione: sono soldati tedeschi, il calcio del fucile attraversa il loro corpo. Scortano cinque giovani laceri stravolti.

Che urlano con le loro bocche mute.
Che fissano me con gli occhi spenti.
Che insanguinano con le vene vuote le mie mani inutili di madre.
Urlo come bestia ferita.
Le mani serrano gli occhi.

Un soldato si stacca dal lugubre corteo. Mi spinge oltre le scale. Vuota la mia anima. Lucida la mia memoria testimone dell’orrore. Innanzi, il volto sprezzante, si muove l’arciprete don Antonio Ferretti biascicando blasfeme litanie. Una bava di vento sfiora la tonaca stinta come di lacrime. La stola oscilla sul petto vile mentre voltandosi incita: Avanti, servirà per esempio!
Nonno Filiberto “scapeggiava” ogni volta che lo sguardo si dirigeva verso quei cinque pali di castagno che il “Moro di Lorenzone” aveva scaricato con il suo carro trainato dai buoi poco distante dalla vigna. Robusti quei pali dalle punte ben sagomate… ma, a cosa servivano quelle catene spezzate, fissate oltre la metà? Poi “camicie nere” gente dei paesi vicini armate di picconi e pale erano venute a piantarle come croci sul Golgota. Al mattino presto di quel 14 marzo 1944, il vecchio e il ragazzo sono nella vigna. L’opera li aspetta. Nell’aria vibrante un vociare di uomini si avvicina e si alza di tono. Servi fascisti scacciano il nonno e il ragazzo. Si inoltrano negli orti, incombono per le casette, per i prati, nelle vigne. Camminando in fretta, fuggendo incalzati, sperduti uomini e donne dalle chiome disfatte, il fazzoletto sciolto dal nodo chiuso, rincorrono a testa china il sentiero verso il paese.

Audemio Giomarelli all'età di 14 anni

Audemio Giomarelli all’età di 14 anni

-Io torno a casa, tu corri al podere e chiuditi dentro! Ordina severo il nonno al ragazzo avviandolo verso la sua casa di mezzadro. Il ragazzo non ubbidisce. Conosce ogni fratta. Ha esplorato ogni nascondiglio. Ogni passaggio segreto. Spinto dall’urgenza e dall’incoscienza di vedere… di sapere… furtivo si nasconde. E a quella fratta. A quel nascondiglio che la natura aveva approntato per lui, perché fosse testimone dell’insensatezza dell’uomo divenuto lupo verso il fratello, è legato il filo di una memoria dolorosa tenace che ha attraversato tutta la sua vita ed è divenuto Storia. Certo, non restò indenne il ragazzo. Tutte le sensazioni visive tattili uditive sonore, furono travolte da ciò di cui fu testimone. I cinque giovani furono trascinati, sciolti dalle corde che serravano i loro polsi, e incatenati ai pali. Le membra ormai abbandonate (certo il nonno aveva capito tutto!). Uno di loro non voleva, non poteva credere. Si dibatteva scosso da un pianto irrefrenabile. Le grida si diffusero nella vallata. Il vento di marzo le alzò e le accompagnò sul poggio di Montioli dove furono raccolte da una giovane donna, Bibbiana Bassanelli che ne fece altare nel suo petto. Il ragazzo Audemio non distolse lo sguardo dal luogo che divenne per lui opaco della terra. Vide soldati schierarsi a distanza: alcuni in ginocchio altri in piedi alle spalle di quelli. I fucili puntati. Una voce demoniaca scandì due ordini. Un unico fragoroso colpo squassò il piano. Le mani del ragazzo si spinsero sulle orecchie. Un bagliore di fuoco e lui fece del suo corpo un serrato gomitolo di membra e sentì perdersi. Non sa dire oggi, il ragazzo di allora, quanto restò nella fratta. Non disse al nonno quello che aveva visto quando ritornò a casa aggirando “il luogo più opaco della terra”. Non confidò la sua disobbedienza. Il racconto non aveva parole allora. Il racconto deve custodire in se stesso un segreto. Solo il tempo potrà aprire la porta al cuore. Come uno di quei fiumi che, a un certo punto del loro corso, scorrono nel sottosuolo per molti chilometri. In quel terreno crescono boschi e roseti con spine lucide pungenti in modo che il segreto serbato divenga un tesoro e molti ne vengano a conoscenza poi, per arricchirsi.