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Storie di Briganti: La morte del Curato e la vendetta di Tiburzi

Le Spie?  Sò peggio de le zampane  o del mozzico de la vipera!
 (Domenico Tiburzi)

Il celeberrimo Domenico Biagini, soprannominato il curato o corata, per via dei santini che si portava sempre appresso, è stato uno dei briganti più celebri della Maremma di fine ottocento. Nato il 12 luglio del 1831 a Farnese da Giuseppe e da Maddalena Narcisi, negli anni della giovinezza si occupava di pastorizia, finché un giorno che era il lunedì Santo ebbe una discussione con un altro pastore, un certo Angeluccio. Il curato, non avvezzo alle mezze misure uccise l’uomo  mediante colpo d’accetta alla schiena. Datosi immediatamente alla latitanza fu tuttavia arrestato dai gendarmi pontifici e condannato a 25 anni di galera. Inviato ai lavori forzati al bagno penale delle Saline di Corneto Tarquinia, incontrò nientemeno che Domenico Tiburzi. Non passò troppo tempo e la pena si risolse in una bella evasione, conclusa per Tiburzi e il Biagini una volta raggiunte le macchie del lamone ufLamone. Una location strategica, che faceva da confine tra Stasto Pontificio e Granducato di Toscana. I briganti potevano guadare la Fiora  in entrambe le direzioni, qualora  inseguiti dalle guardie Papaline o dai gendarmi  granducali. Per quasi vent’anni Tiburzi e Biagini si diedero a compiere sequestri, grassazioni, omicidi e ogni tipo di reato condannabile dalle autorità vigenti. Dopo diciassette anni di latitanza  Domenichino e il Curato erano soli e malridotti per la vita in cattività, ma furono risanati dall’ingresso nella banda di Luciano Fioravanti, molto più giovane di loro,  il quale si mostrò di grande aiuto per i due banditi.  Tuttavia il sei agosto del 1889 mentre Tiburzi, Biagini e Fioravanti riposavano nella grotta di Gricciano, dalle parti di Montauto, furono attaccati dai gendarmi del viterbese e del grossetano, alleati per l’occasione e decisi a stroncare una volta per tutte la banda. Tiburzi fu ferito a una gamba, ma a forza di schioppettate e grazie all’aiuto di Fioravanti riuscì anche stavolta a mettersi in salvo. Una sorte peggiore ebbe il Biagini, trovando la morte in quei luoghi. La versione ufficiale lo vedeva ucciso dai gendarmi, ma non furono i carabinieri ad ucciderlo, bensì un infarto improvviso, causato certamente dalla gran paura provata durante l’imboscata. Come accadde  per il brigante Angelo Scalabrini, detto Veleno, ucciso dal parroco di Pianiano Don Vincenzo Danti (vedi il Nuovo Corriere del Tufo di luglio), i militi colsero l’occasione e sparando un colpo di fucile al brigante già morto se ne attribuirono l’uccisione, nella speranza di meriti e onori. Una volta rifugiati nella sicura e oscura selva del Lamone, Tiburzi e Fioravanti iniziarono a domandarsi come avesse potuto compiersi un tale sfacelo. Non riuscivano a darsi pace, era praticamente impossibile che nessuno tra tutti i loro fidatissimi  li avesse avvertiti. Per mesi indagarono domandando informazioni a manutengoli, amici e parenti, fino a ricostruire il tutto. La morte del Biagini era stata causata dal mancato avvertimento da parte di Raffaele Gabrielli, fattore del Marchese Guglielmi. Egli venne informato che tra il 5 e il 6 agosto nella zona di Montauto sarebbe scattato l’attentato, e che perciò avrebbe dovuto avvertire Tiburzi con la massima urgenza. Ma il fattore del Marchese, avvezzo al buon vino  finì per ubriacarsi in una trattoria di Civitavecchia, dimenticando di riportare il messaggio e causando inconsapevolmente la conseguente disfatta. Anche se fu noncuranza da parte del Gabrielli a causare la morte del curato, per Tiburzi  fu a tutti gli effetti come un tradimento. Nel frattempo era passato un anno intero quando una mattina d’inizio agosto a Pian di Maggio, vicino Vulci, era nova2 modiniziata la trebbiatura. Il fattore Gabrielli se ne stava sdraiato all’ombra di una quercia a chiacchierare mentre quasi cento mietitori erano a lavoro per il marchese Guglielmi. All’improvviso uscirono  dalla macchia due soggetti con fucile a spalla,  puntando  velocemente verso il bivacco del fattore. Tiburzi tuonò: “Raffaele Gabrielli! Sangue della Madonna, ti ricordi il 6 agosto dell’altr’anno?” E senza aggiungere altro scaricò un colpo di fucile al petto del fattore. I due briganti senza indugiare tornarono nel folto del bosco, incuranti di tutti i mietitori che osservarono inermi la scena. Giustizia era stata fatta, Biagini, amico e compagno di avventure era stato vendicato. Questa è una delle tante storie di ordinaria follia che si vivevano in Maremma, dove il coraggio della disperazione portava alcuni uomini a sfidare l’autorità costituita, scegliendo di darsi alla macchia e vivere braccati anziché ristagnare nella miseria. Perché altrimenti era questo  il destino dei contadini in Maremma, spaccarsi la schiena per una ben misera paga, soggiogati da padroni, padroncini, caporali, fattori e prelati. Ma sopravvivere  in clandestinità voleva dire saper  farsi rispettare, senza mai abbassare la guardia, elargendo favori a chi forniva aiuto e punendo chi tradiva o non portava a termine i propri impegni. Questa era la Maremma di cent’anni fa, sangue e miseria, tradimento e vendetta, una terra amara, dove gli uomini vivevano come paradossi viventi, e la giustizia era solo per i potenti.

 

 

 

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