I libri Effigi su Manciano, Pitigliano, Sorano.

Storie di Briganti nell’Alta Tuscia

La Storia del feroce Basilietto
“Quando il sole fu alto nel cielo e scomparvero le brume mattutine, Tiburzi si alzò, chiamò vicino a se il biscino e gli mostrò un vasto territorio: questo è il mio regno su cui tu, da domani, potrai pascolare tranquillamente, senza che nessuno si azzardi ad impedirtelo..”

brigantiLa figura del brigante Maremmano nella seconda metà dell’ottocento ha rappresentato una  figura controversa, un ibrido tra il bandito sanguinario e il simbolo di una protesta del popolo contro i soprusi ad’opera di istituzioni, proprietari terrieri, caporali e capoccetti.  Il brigantaggio ha rappresentato  una icona di rivolta al potere, incarnando un prototipo di anarchico nostalgico che sceglie la natura selvaggia e  la libertà alla fatica  della terra e  ad una vita di stenti e di privazioni.  A fine ottocento lo stato della Chiesa era definitivamente annesso al nuovo regno d’Italia, ma per la gente dei borghi tra le colline del Fiora l’unica differenza tra il Papa e i Savoia fu rappresentata dalla sostituzione delle guardie papaline con i reali carabinieri. Per il resto la miseria e la fame restarono consuetudine. In questo clima di odio verso i potenti, la figura del brigante ne uscì mitizzata, identificata come l’unico uomo che una volta  imbracciato il fucile trova il coraggio di ribellarsi all’autorità costituita. Una fiamma rivoluzionaria che anticipa di qualche anno il divampare del socialismo internazionale. i briganti furono, fino alla fine dell’ottocento, le figure più chiacchierate dal popolo, i quali racconti condiva con una generosa dose di fantasia, trasformando spesso dei comuni malfattori in una sorta di Robin Hood anacronistici.  In questo quadro certamente spicca Domenico Tiburzi, che con i suoi 25 anni di latitanza si era sistemato relativamente bene. Presente nei libri paga dei latifondisti alla voce tassa sul brigantaggio, il re del Lamone guadagnava abbstanza, anche se gli utili venivano dilapidati in armi all’ultima moda, donne e vino, ma soprattutto per ricompensare i propri “manutengoli” per i favori e le informazioni ricevute. Nella sua banda circolavano personaggi parodistici, violenti, banditi comuni, spesso sadici, i quali accecati dal potere dello schioppo e del pugnale, cadevano spesso nello sfregio ai danni di mercanti e viaggiatori. Il Tiburzi e il suo luogotenente Biagini dovevano contenere gli eccessi degli altri briganti, giacché la gente voleva vivere tranquilla, senza intimidazioni da coloro che con compiacenza e omertà di massa aiutava a perseverare.  Allo stesso modo i proprietari terrieri pagavano a “Domenichino”  la tassa sul brigantaggio, e ciò doveva bastare per non aver ulteriori grane da chicchessia.   Nel 1893, mentre Tiburzi continuava a restare latitante, il governo Giolitti, giudicando inconcepibile la situazione di ribellione creatasi in Maremma, organizzò un arresto di massa (261 persone) tra Ischia, Farnese e Cellere, con l’accusa di favoreggiamento ai Briganti Tiburzi, Biagini (già morto in precedenza) e Fioravanti. La strategia del governo era quella di isolare i banditi, ma ciò che ottenne fu solo di rendere ancor più in miseria le famiglie degli arrestati e di incentivare ancor più la diffidenza del popolo verso l’autorità costituita, senza minimamente concentrarsi sui problemi sociali che avevano permesso il proliferare del brigantaggio in alta Tuscia. Il maxi processo di Viterbo gettò la Maremma,  conosciuta allora solo per la malaria, sulle pagine di tutti i quotidiani nazionali, rendendo celebri i banditi e dimostrando al contempo le falle del sistema giuridico della nuova Italia:  pronta a gettare alla gogna i poveri diavoli, ma lesta a tirarsi indietro e a insabbiare laddove usciva il nome di qualche latifondista o di un rappresentante delle istituzioni. In quegli anni scrittori e cronisti hanno raccontato storia e storie dei briganti, in un clima di realismo, porgendo orecchio sia ai racconti del popolo, sia ai referti del “processone”. In queste pagine vogliamo raccontare la storia di Basilietto, feroce brigante, sadico e avverso a mercanti e viaggiatori, che rischiando di minare il regno di pace instaurato da Tiburzi, il 14 luglio del 1879 fece una brutta fine. Abbiamo scelto in questa sede di riportare la storia nelle parole di un anonimo scrittore, che nel fatidico 1893 scrisse i “cenni storici dei briganti che hanno scorrazzato nella regione Castrense”. Riportiamo dunque il testo nella sua interezza per non alterare il realismo del racconto e  mantenere viva la freschezza di quegli episodi.

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Ritratto di Domenico Tiburzi

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Lapide di Tiburzi nel cimitero di Capalbio

Non era trascorso che poco tempo dall’uccisione di Biscarini, allorché un altro non meno feroce e terribile andò a rimpiazzarlo. A Farnese lo chiamavano Basilietto, e ciò in senso ironico  stante le sue forme atletiche. Alto nella persona, la testa piccola, grandi le spalle, il petto largo e aperto, i muscoli pronunciatissimi e di una grossezza fenomenale; onde dotato di una forza prodigiosa unita ad una ferocia naturale, era temibile più c’ogni altro. La sua indole inquieta, la proverbiale avversità pei ricchi, il suo girare cupo e silenzioso faceva presagire una brutta fine. Già da vario tempo andava dicendo che voleva buttarsi alla macchia, ed allorché seppe della morte di Biscarini, esclamò: “oh! Ecco giunto il momento”. Certo Gentili Felice, piccolo proprietario di Farnese, vantava su di esso un credito di un rubbio di grano. Da vario tempo ogni qualvolta lo incontrava, fra le preghiere e le minacce, pretendeva la restituzione. Un giorno vistolo sotto il cosi detto finestrone della piazza, gli si accostò importunandolo nuovamente. Il Basili reagì, e fu fortuna se non lo ammazzò in quel momento, per la presenza di molta gente attirata dal chiasso. Erano trascorsi da quel diverbio vari giorni, allorché una sera si vide un accorrere di gente verso la strada del molino. Che è, che non è? Adagiato sopra una sedia portata al braccio da tre uomini, era un uomo dal volto cadaverico, grondante sangue da una larga ferita che s’apriva in mezzo al petto. Una donna tutta scapigliata e lacera sorretta da alcune pietose donne, gradando con voce rauca e rotta dai singhiozzi, seguiva il mesto corteo. Giuseppe Basili aveva giurato di gettarsi alla macchia, aveva giurato uccidere il Gentili, e non mancò ai suoi giuramenti. Il Biagini e Tiburzi non appena lo videro con il volto orribilmente contratto, gli diedero il benvenuto. Prima di accettare l’atto di obbedienza pretese che gli accordassero facoltà di muover guerra a molti signori. I vecchi briganti annuirono a malincuore, perché già mediante l’imposizione di una tassa, traevano di che impinguarsi senza ricorrere ai ricatti. Suo primo pensiero fu di ricattare il ricco mercante Maioli Francesco d’Ischia di Castro. Condotto che l’ebbe nella macchia della Selvicciola, dopo avergli richiesto la somma di quattromila scudi, unitamente a bestemmie orrende e minacce terrorizzanti, pensò prendersi di lui divertimento col misurargli  le bocche del fucile nelle orecchie e nella bocca, facendo scattare i cani: annoiatosi del fucile, prese il pugnale  misurandogli la punta nelle occhiaie per cavargli gli occhi, e questo sarebbe avvenuto se non fossero accorsi Tiburzi e Biagini, avvertiti dell’accaduto. Egli non mancava notte che non facesse visita alla moglie, e si racconta che più di una volta siasi divertito a tirare il campanello della caserma dei carabinieri. Una notte, non si sa come, i carabinieri furono avvertiti che Basilietto era a casa della moglie. Essi dopo un inutile affaccendarsi, quasi cercando il modo a che il brigante s’inducesse a scappare, con i fucili a bilanciarm, s’indussero a correre e circondare la casa. Ma il brigante senza scomporsi, salito sul tetto riuscì a fuggire lasciando in aspettazione fino a giorno inoltrato i cinque coraggiosi carabinieri. Questa importunità dei carabinieri gli urtò i nervi talmente, che giurò vendicarsi di quel grosso tenente che giornalmente non mancava fare capolino a Farnese. Infatti audacemente s’appiattò sotto ilo ponte della strada d’Ischia di Castro.Ed ogni qualvolta che sentiva lo scalpitar di un cavallo era li pronto con il fucile in mira. Fortunatamente in quei due giorni il tenente non passò, che altrimenti la morte sarebbe stata inevitabile. Essendogli sfuggito il tenente, volle ottenere una soddisfazione dai carabinieri, ed una sera che questi dovevano attraversare la Fiora, nel punto detto il guado delle Tavolare, videro un uomo armato di fucile saltare con lestezza nell’acqua e piantarsi nel bel mezzo del fiume col fucile spianato sovr’essi. – Se fate un movimento vi spacco il cranio, carogne! I due carabinieri cedettero bene fare il dietro front. Che ricchi, che signori, urlò Basilietto. – Vi ho detto che li voglio sterminar tutti!… Voglio bevere il sangue loro!… Perdio!… Ma finiscila, via!.. Se non ci troviamo d’accordo, ammazzo anche voialtri, brutti vigliacchi! E che siete briganti? Siete mangiaufo! Rotto il ghiaccio, il Basilietto continuò a mostrarsi provocatorio, suscitando nella banda frequenti litigi. – Ma leviamocelo di torno, Menichì! – Hai ragione, sì domani gli famo la festa. Il luglio del 1879 mostravasi cocente più degli altri anni, e i briganti stavansi coricati su letti improvvisati  con fronde d’alberi, all’ombra di secolari cerri, nella località detta Cerreta Piana. Il vino bevuto a profusione, procurò in breve un sonno a tutti. Un maiale selvatico nel passare di là fece alquanto rumore, e il Biagini che aveva sonno leggerissimo si svegliò imbandendo il fucile. Assicuratosi dello turbatore innocuo, tornò nuovamente alla cuccia. Nel passare vicino a Basilietto volle il caso che l’urtasse col piede, al quale urto il brigante baldanzoso com’era sbuffò come un toro, minacciando, come al solito, di morte. Che diavolo ha quel maiale? – borbottò Tiburzi svegliandosi. – Non lo sai?… Il solito! – Oggi sarebbe il giorno stabilito per la festa, non rammenti? – Hai ragione. Adesso che il porco dorme, è più facile accorarlo. E dato di piglio al fucile lo puntò sulla tempia di Basilietto. Altrettanto fece il Tiburzi. – Tu alla testa ed io al core! Una doppia detonazione  rintronò per la cupa macchia, ripercuotendosi nelle vicine vallate. Il feroce Basilietto non era più.  Il Biagini rese avvertita l’autorità della fatta operazione, indicando il luogo ove il cadavere giaceva. L’ispettore Fazio, che trovavasi in missione a Farnese, unitamente al tenente dei carabinieri e ad una pattuglia si recò sul luogo. Basilietto giaceva supino nella posizione in cui venne colpito, una palla entrandogli nell’orecchio sinistro era uscita dalla nuca, l’altra sotto l’ascella sinistra era uscita dalla schiena. Il suo cadavere, dopo la relativa autopsia fatta nella camera dell’ospedale vecchio, venne sepolta nel cimitero di Farnese.

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