I libri Effigi su Manciano, Pitigliano, Sorano.

Il Brigante Veleno, una storia di vendetta e gelosia

Bieca è la faccia, scruta con lo sguardo
Indagator d’avida avventura;
ghigna feroce,
e lesto come il dardo è nelle imprese,
è sua natura piombar veloce.

pianiano 4Il piccolo borgo di Pianiano, frazione del comune di Cellere, è una romantica cornice arroccata tra gli immensi spazi della campagna della Tuscia. Questo paesino fortificato divenne celebre per aver dato la luce al famoso brigante Domenico Tiburzi, ma al contempo di racconti ne conserva davvero tanti, come l’episodio delle famiglie albanesi che vennero ad abitarvi, senza tralasciare la malaria, i soprusi o le transumanze. La storia del brigante Veleno è una di queste, un racconto di violenze e di amori carnali, di vendetta e di folklore.  Nella parrocchia di Pianiano leggendo il liber mortuorum ab anno 1781, si scorge un pomposo appunto in latino redatto  dal parroco di allora, don Vincenzo Danti, che riporta la morte del temibile brigante Angelo Scalabrini, in arte Veleno. Questo malfattore incarnava tutte le caratteristiche tipiche del bandito: era di enorme corporatura, con barba folta e ispida, armato fino ai denti. Amava le donne e non si faceva remore ad averne in ogni angolo della Maremma.  Mangiava a dismisura, tanto da essere soprannominato Magnone. Ma tra tutte queste “nobili qualità” nello Scalabrini regnava il sentimento della gelosia, che lo rendeva cieco e pronto a immediata vendetta.  Il famigerato brigante si era invaghito di una donna di Cellere, Fiorangela Codelli, la quale successivamente se la intendeva anche con Domenico Tiburzi. In quel periodo la donna era  al servizio e al contempo amante del curato di Pianiano, don Vincenzo Danti, che non sembrava accettare che la donna ricevesse le attenzioni del brigante Veleno, tanto da mandargli a dire di cessare le frequentazioni con la Codelli. Ovviamente Veleno non era tipo da accettare ne ordini ne consigli, tanto che cieco di rabbia e di gelosia mandò a dire al curato che se non avesse smesso di vedere la donna, avrebbe pagato nientemeno che con l’evirazione mediante coltello a serramanico.  Nonostante l’avvertimento avrebbe intimidito anche un eroe, il mite parroco Danti non se ne curò minimamente, continuando a intendersela con la giovane Codelli. Ma veleno ben presto passò ai fatti e una mattina di agosto del 1867 aspettò dietro un angolo che il prete arrivasse. Con due canne di fucile puntate alla schiena il poveretto fu scortato alla Banditella,  fino a una gola pianiano1impenetrabile. Lo scalabrini fece inginocchiare il curato pronto per dargli l’ora pro nobis, mentre il sant’uomo aggrappato alle caviglie del brigante pregava i santi e al contempo lo implorava di perdonarlo, dacché avrebbe da subito smesso di frequentare la giovane donna.  Veleno era irremovibile, pronto a giustiziare in un momento il disgraziato, ma il Danti ebbe un momento di lucidità, chiedendo allo Scalabrini di poter estrarre dalla tasca il fazzoletto per potersi bendare, così da non dover guardare in faccia la morte. Il permesso gli  fu accordato, ma come un prestigiatore che estrae il cappello dal cilindro, il tranquillo curato estrasse dalla tonaca un gran coltellaccio col quale assestò tre fendenti tra la pancia e la spalla di Veleno, che in un ultimo sforzo tra rabbia e stupore provò a strangolare il prete, ma finì per spirare a terra.  Il parroco, sollevato per aver avuto salva la vita, informò dell’accaduto le forze dell’ordine, che giunte sul posto spararono un colpo di fucile al brigante già deceduto, per attribuirsene il merito dell’uccisione, come altri gendarmi  fecero con il brigante Domenico Biagini, morto durante un agguato per arresto cardiaco. Il cadavere di Veleno fu trasportato a Farnese, esposto in piazza per un giorno e seppellito in terra sconsacrata. Ma di terra sopra al brigante ne fu gettata poca, tanto che un forte temporale scatenatosi qualche tempo dopo riportò alla luce il cadavere del furibondo bandito, il quale pareva mostrare un  ghigno che avrebbe spaventato anche i santi. Allora si dice che i Farnesani, presi dalla paura, avessero deciso di seppellire il brigante all’interno del cimitero, in terra consacrata. Molto probabilmente in questo epilogo storia e fantasia rendono difficile l’esatto svolgimento dei fatti, ma del resto, senza un po’ di folklore, non sarebbe stata una autentica  storia di Maremma.

 

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