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Alessandro Meo e la sua sindrome di Peter Punk raccontata in quattordici preziose storie

alessandro meoContinuare a crescere libero pur avendo più di 40 anni. La “Sindrome di Peter Punk” è quella che ha colpito Alessandro Meo, per tutti Sante, pitiglianese acquisito che lo scorso mese di settembre ha presentato il suo primo libro che porta questo curioso titolo e che tutt’ora sta portando in giro con varie presentazioni (almeno finché le restrizioni Covid lo hanno permesso). Storie si, ma anche solidarietà, ottimismo, fiducia nel futuro…per chi lo conosce bene c’è tanto Alessandro in questo libro e c’è soprattutto tanto da comprendere e da portarsi via quando si finisce di leggerlo. Quattordici racconti illustrati (benissimo!) dedicati a grandi e piccoli da leggere tutti d’un fiato, siamo andati ad incontrare Alessandro per farci raccontare da dove viene questo e per conoscerlo un po’ meglio.

Partiamo dal titolo. Ci spieghi cos’è la sindrome di Peter Punk?
Per spiegare questo mi avvalgo semplicemente dell’introduzione del libro “Credo di essere affetto da una specie di sindrome che potremmo definire di Peter Punk che mi fa vivere fra il mondo delle fiabe e l’utopia della libertà. Mi piacerebbe nel mio mondo immaginario essere riuscito ad accompagnare sul treno, zaino a spalla, Woody Guthrie e Gianni Rodari, oppure Italo Calvino e Joe Strummer. Ma in fin dei conti sono solo mie fantasie magari poi il risultato sarà noioso e banale. In ogni caso se state leggendo queste righe vuol dire che forse leggerete anche il libro…con buono spirito punk mi prendo la liberà di fare un po’ di confusione: non so se si tratti di fiabe o racconti, se siano per bambini/e o per adulti. Forse questo dubbio rispecchia il mio essere sempre nel piacevole limbo di Peter. Ma quello che queste storie vorrebbero generare potrebbe definirsi una piacevole collaborazione tra chi scrive e chi legge. Le narrazioni del libro non si esauriscono, pongono delle domande sul finale, sul contesto, sul loro stesso senso”.
Insomma, volevo generare una confusione tipica del punk che poi non è confusione ma è senso di libertà. Il primo libro scritto da un quarantenne che si sente comunque adolescente dentro, quindi una fusione: un po’ Peter e un po’ eternamente Punk.

Raccontaci la gestazione di questo libro, le dinamiche su come è nato e sviluppato
Il libro nasce da due blocchi di racconti scritti da me. Il primo circa un anno e mezzo fa, il secondo durante il lockdown della scorsa primavera vissuto a Pitigliano. Due mesi e mezzo di solitudine che mi hanno dato il tempo di sistemare i primi racconti già scritti e di inventarne e scriverne altri. Dopodiché la bozza grezza del libro finito è stata proposta ai miei compagni del Collettivo Elementi Kairos e da lì abbiamo deciso di allargarlo anche a una serie di altri amici tra cui illustratori, correttori per costruire un prodotto finito da poter pubblicare. Credo sia un piccolo record come tempistiche, un libro proposto ad aprile, stampato e uscito in agosto, grazie soprattutto all’entusiasmo con cui è stato accolto da tutti questi personaggi che mi hanno aiutato.

Il racconto a cui sei più affezionato?
Difficile sceglierne uno ma se proprio mi costringi direi “La chitarra di Victor”.
È tra i primi che ho scritto, nato in un momento in cui seguivo con attenzione ciò che stava succedendo in Cile dove si stava sviluppando un movimento di opinione, rivolta nei confronti del governo Pinera, un governo di estrema continuità addirittura con la dittatura di Pinochet. Mi aveva impressionato a livello emotivo tutta una serie di simbologie che coinvolgeva tante persone di età differenti, concezioni differenti. Simbologie importanti come la musica e il ballo. Parlando di musica mi aveva colpito molto la storia dell’utilizzo nelle piazze, nelle strade della musica di Victor Jara (cantautore torturato e ucciso nel 73 nello stadio di Santiago del Cile). Questo era un po’ il segno della continuità storica della resistenza cilena allora come oggi. Per cui ne “La Chitarra di Victor” mi immagino la canzone di Jara “Te recuerdo Amanda” ascoltata da un bimbo attraverso il canticchiare dai suoi genitori che sono due persone che nell’epoca di Pinochet erano dissidenti, ma che ancora oggi, in questo Cile, la utilizzano come inno di libertà. Spero che il risultato sia all’altezza di quella canzone o che comunque possa ricordarla.

Di questo racconto a me ha colpito molto un passaggio, quando il piccolo Manolito va dai genitori e si rende conto che i problemi dei grandi stanno diventando anche i suoi problemi.
Può essere il seno o almeno un senso di questo libro? L’incontro cioè di generazioni con problemi comuni e il ruolo dei grandi nel raccontarli ai più piccoli?

Diciamo di si, in quel passaggio si può ritrovare anche un po’ il senso del libro, questo gioco, questa complicità tra grandi e piccoli nel raccontare storie importanti. Manolito a un certo punto del racconto fa delle domande, su quella canzone, che è appunto una canzone importante, impegnativa, dolorosa, e i genitori alla fine ci stanno, si sorridono e raccontano seppur con parole semplici il concetto di amore e libertà che è dietro a quella canzone. Questa è un po’ la finalità che c’è dietro a questo libro ovvero raccontare ai più piccoli storie anche dolorose con un linguaggio semplice e dolce in modo da alimentare in loro una reazione, una speranza e un senso di giustizia. Questo per me è una cosa bellissima direi che hai colto nel segno con la domanda, il bimbo si sente cresciuto e può essere in grado di fare certe domande e lui si sente più grande e possessore di un grande segreto.
Mi viene in mente una citazione di Eduardo Galeano contenuta nel “Libro degli Abbracci” in “Aiutami a Guardare” che dice: “Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: Aiutami a guardare!”.
Ecco in questa richiesta c’è quello di cui parlavamo. La nostra responsabilità nei confronti dei più piccoli è quella di aiutarli a guardare il mondo che non sempre è bello ma che dobbiamo impegnarci per farcelo tornare.

Leggendo le tue storie, nonostante tratti temi molto delicati e situazioni difficili, si sente un velato ottimismo, secondo me lanci sempre un segnale positivo in ognuna di esse…
Siamo in un momento in salita diciamocelo. Credo che raccontare storie dure, tristi possa avere un senso soltanto se si lanciano messaggi ottimistici forti.

Può essere considerato un altro messaggio importante che lancia il libro?
Non lo so, ma a cosa ci serve il contrario? Da dove viene questo mio ottimismo non saprei. Magari solo ipotizzare oltre a raccontare un mondo che non contenga ingiustizie e che abbia come fondo un amore per la vita molto forte. Diciamo che l’ottimismo viene da lì, dall’amore per la vita e per la solidarietà. Solo con l’ottimismo si realizzano sogni, idee e ci si muove con il pessimismo si resta fermi.

Hai in mente di scriver ancora qualcosa e se si cosa?
Sicuramente. Ho in mente qualcosa che continui il percorso intrapreso con la Sindrome di Peter Punk visto anche il “successo” e l’entusiasmo con il quale è stato accolto il libro.

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